Quando l’aria si farà leggera

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Quando l’aria si farà leggera?

Era una di quelle mattine in cui il cielo non pretendeva nulla. Nessun tuono, nessun abbaglio, solo il respiro vasto dell’alba che posava la sua luce gentile sulle cose.
Lei si era svegliata presto, come sempre. Non per dovere, ma per istinto. Il corpo conosceva l’ora in cui il silenzio non è ancora silenzio, ma un’attesa.
Si preparò un caffè nero, forte, lo sorseggiò piano sulla soglia di casa. I piedi nudi sull’antico cotto, la vestaglia annodata con cura, gli occhi rivolti a un punto che cambiava ogni giorno ma che, in fondo, era sempre lo stesso: un tratto di cielo fra i rami del mandorlo.

Non era stanca. Non era nemmeno inquieta. Era… in ascolto. Del vento. Della sua pelle. Delle parole che non diceva più. La chiamavano riservata, qualcuno diceva “troppo sola”, altri la cercavano nei momenti in cui avevano bisogno di uno sguardo che non giudicasse.
Ma lei, da tempo, non aspettava persone. Aspettava aria. Quella leggera. Quella che sa accarezzare senza muovere nulla.
Ogni gesto aveva il suo ritmo. Sistemava i fiori freschi sul tavolo come se stesse ricamando una preghiera. Lavava le verdure con un’attenzione che sembrava amore. E in tutto questo, sorrideva. Non con le labbra, ma con lo sguardo.
Aveva imparato a distinguere le giornate in base al profumo del vento. C’erano quelle taglienti, che entravano nelle ossa e ci restavano. E poi c’erano quelle che portavano una promessa.
Non parole. Non eventi.

Una promessa più sottile: quella che l’aria, un giorno, si sarebbe fatta leggera. E lei lo avrebbe sentito. Non si trattava di magia. Né di attesa passiva.
Era una scelta. Quella di non lasciarsi travolgere dal rumore del mondo. Di non correre, se non verso ciò che vibra. Di non parlare, se le parole non erano carezze o fuoco.
Coltivava semi, pensieri, silenzi. Leggeva poesie a voce alta per i merli. Scriveva lettere mai spedite a chi aveva toccato la sua anima, anche solo per un istante.
E ogni tanto, si metteva a danzare, da sola, tra cucina e terrazzo. Non per nostalgia, ma per gratitudine.

La sua forza era invisibile. Non faceva rumore. Era come la brezza che precede una sera d’estate. Come la sensazione di un bacio non dato, ma immaginato a lungo. Quel giorno, seduta sulla panchina che aveva dipinto di blu, chiuse gli occhi.
Non pensava a nulla. Non cercava nulla.
Poi lo sentì.
Un fruscio, un’ombra di vento, qualcosa che non toccava ma avvolgeva.
E dentro, la certezza.
L’aria si stava facendo leggera.

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